Secondo i dati della European Roma Rights Centre, i Romanì presenti oggi in Italia sono circa 140.000 o poco più. Di questi oltre 70.000 hanno la nazionalità italiana perché appartenenti a famiglie giunte in Italia dal XV secolo. Dei restanti, si contano almeno 30.000 rumeni presenti in Italia da tempo (dagli anni 60), e circa 40.000 giunti in Italia a metà degli anni 90 in seguito alla guerra Jugoslava.
Per i 70.000 italiani non si può quindi parlare di "ritorno a casa loro" perché si trovano già nel loro paese in cui semplicemente rappresentano una piccola minoranza etnica. Di questi molti svolgono regolari attività, pagano le tasse e sono insediati nella società italiana. Un esempio è costituito dai circensi e dai giostrai, in larga misura Sinti, e quindi Romanì.
Per quanto riguarda gli altri, si tratta di migranti, molti dei quali da tempo insediati in Italia, che hanno rotto ogni legame con i luoghi d'origine ai quali probabilmente sarebbe per loro estremamente difficoltoso tornare. A scorrere i Rapporti del Consiglio Europeo, l'Italia sembra avere la maglia nera nella gestione della questione Rom. La lista delle "mancanze" italiane è lunghissima.
Contrariamente agli altri paesi della vecchia Europa, non abbiamo una politica certa sui documenti di identità e di soggiorno mentre in altri paesi, Rom e Sinti hanno la carta di soggiorno ed anche i passaporti.
Nonostante molti Rom e Sinti vivano in Italia da decenni, non hanno la cittadinanza, con il risultato che migliaia di bambini Rom nati in Italia risultano apolidi; gli stessi bambini non vanno a scuola e non hanno accesso all'educazione; non sono riconosciuti come minoranza linguistica.
L'Italia, soprattutto, continua ad insistere nell'errore di considerare queste persone nomadi segregandole in campi sprovvisti dei servizi e diritti basilari mentre sono persone a tutti gli effetti stanziali.
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