lunedì 30 agosto 2010

Un circo che ci umilia

Gheddafi a Roma fa quello che vuole non soltanto in cambio delle galere e dei campi di concentramento dove la polizia libica trattiene gli africani che vorrebbero fuggire verso l'Italia, e non solo perché i due fanno affari privati, come da tempo sospetta la stampa internazionale, e ora anche italiana.

Il punto è che Berlusconi gli mette a disposizione tutto quello di cui ha bisogno l'eccentricità beduina perché con Gheddafi ha un patto antropologico. È una somiglianza tra capi che la storia conosce già, sono identità che finiscono con il confondersi: Trujllo e Franco, Pinochet e Videla, Ceausescu ed Enver Hoxha, Pol Pot e Kim il Sung...

Non è l'ideologia a renderli somiglianti ma l'idea del potere, quello stesso che oggi lega Berlusconi e Gheddafi, Berlusconi e Chavez, Berlusconi e Putin. Ecco cosa offende e degrada l'Italia: l'Asse internazionale della Satrapia.

(Francesco Merlo, Repubblica.it)

sabato 28 agosto 2010

★ Lo strano caso di Troy Davis

Lo scorso martedì 24 agosto il giudice William Moore ha dichiarato che Troy Davis, condannato alla pena capitale e detenuto da diciannove anni nel braccio della morte, non ha "chiaramente dimostrato" la propria innocenza nel corso dell'udienza probatoria svoltasi a Savannah (Georgia, USA) nei giorni 23 e 24 giugno.

Eppure, durante la succitata udienza:

  • quattro testimoni hanno ammesso di aver mentito nel processo in cui hanno coinvolto Troy Davis e che non sapevano chi avesse sparato all’agente Mark MacPhail
  • quattro testimoni hanno chiamato in causa un altro uomo come colpevole
  • tre testimoni hanno denunciato di aver ricevuto pressioni durante l'interrogatorio, tra cui un uomo che al momento del delitto aveva appena sedici anni ed è stato interrogato da diversi agenti di polizia senza la presenza dei genitori o di altri adulti.

Allora perché Troy Davis ha ripreso il cammino verso l'esecuzione?

giovedì 26 agosto 2010

La bella politica

Se gradite un massaggio al morale, scordatevi leggi ad personam e cognati a Montecarlo. Date piuttosto un'occhiata alla rassegna-stampa di ieri: «Egregio ministro dell'Interno, quando lasciai il mio posto a Milano fui messo in disponibilità con metà dello stipendio. Ebbene, trovo di poterne fare a meno. Considerando che già ricevo dallo Stato la cifra di [...] come direttore della Galleria, mi pare doveroso, nelle attuali condizioni delle finanze, rinunciare a quell'altra somma». E allora?, direte voi. Si tratterà di un miliardario o di un eccentrico.

Il vero dramma di questo Paese non è solo lo spreco di denaro pubblico, ma la tragica incompetenza di chi è chiamato a gestirlo. Giusto, eccovi serviti, sempre dalla rassegna-stampa di ieri: «Signor ministro, Ella mi ha comunicato un decreto che mi nomina direttore del ministero dei Lavori Pubblici. La ringrazio dell'onore che mi ha voluto fare, ma non ho le cognizioni tecniche necessarie a un direttore dei Lavori Pubblici e non potrei, senza danno pubblico e senza rimprovero della mia coscienza, togliermi un carico maggiore delle mie forze. La prego perciò di accettare la mia rinuncia».

Siete rimasti colpiti, vero? Anch'io, accidenti. Ho confuso le buste e, anziché quella con la rassegna stampa, ho aperto quella coi ritagli della storia d'Italia che sto scrivendo in ultima pagina con Fruttero. La prima lettera era di Massimo D'Azeglio, Torino 1861, la seconda di Luigi Settembrini, Napoli 1860. Chiedo scusa ai politici contemporanei per averli confusi con quegli improvvidi antenati.

(Massimo Gramellini, Buongiorno)

martedì 24 agosto 2010

Nelle forme e nei limiti della Costituzione

Ai tempi dell'Università – parlo del 1992-93 –, il professore di Scienza della Politica ci fece studiare (anche) su un volumetto da lui curato intitolato Piccolo Thesaurus Politico. Era un utile compendio, anzi: una bussola. Serviva per non smarrirci, per non perdere il senso delle parole, dei termini spesso usati a sproposito dai giornali e dalle televisioni in un'epoca, peraltro, in cui ancora non esisteva il berlusconismo politico come lo conosciamo oggi.
Il PTP sarebbe ancor più importante oggi e servirebbe parecchio a certi politici d'alto rango che straparlano.

Per esempio, stamani il ministro della Giustizia – quindi, in teoria, uno che la legge la dovrebbe conoscere – ha detto: "La Costituzione dice che la sovranità appartiene al popolo quindi un governo che vede all’opposizione chi ha vinto le elezioni viola la Carta costituzionale".

Allora, mettiamo i puntini sulle i. L'articolo 1 della Costituzione dice che sì, la sovranità appartiene al popolo, il quale, però, "la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".
La forma, dunque. Qual è la forma? Ce lo spiega l'articolo 94 della Carta: "Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere". La forma di governo è parlamentare. Ossia, la maggioranza dei senatori e dei deputati deve votare la fiducia a un governo; qualsiasi esecutivo, guidato da chicchessia, riceva la fiducia dalla maggioranza dei senatori e dei deputati è legittimo. Così è stato – sempre! – dal 1948 ad oggi.

Dice: ma la volontà popolare deve essere rispettata e la volontà popolare si è espressa inequivocabilmente a favore di Berlusconi presidente del Consiglio.
Vero solo in parte. Perché è giusto che la maggioranza degli italiani ha voluto Berlusconi presidente del Consiglio, ma sulla base di cosa? Di una legge elettorale. La legge elettorale è di tipo ordinario, quindi gerarchicamente è un gradino sotto la legge costituzionale. Ne deriva che tra "il governo deve avere la fiducia delle due Camere" e "sulla scheda elettorale c'era scritto Berlusconi presidente" prevale il primo assunto.

Ancor più importante. In realtà, i cittadini eleggono non un governo (perché, come si è visto, esso promana da una qualsivoglia maggioranza parlamentare), ma i loro rappresentanti in Parlamento: ossia, eleggono Denis Verdini, Massimo D'Alema, Antonio Di Pietro e così via. Saranno poi Denis Verdini, Massimo D'Alema e Antonio Di Pietro e così via a votare o meno la fiducia a un governo. Dicesi, per l'appunto, "democrazia rappresentativa". E giova ricordare che Denis Verdini, Massimo D'Alema e Antonio Di Pietro e così via nel votare o meno la fiducia sono assolutamente liberi perché – in base all'articolo 67 della Costituzione, "ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato".
Senza vincolo di mandato.
Significa che un elettore non può dire a un eletto "ti ho votato perché tu sostenga Berlusconi". O, meglio, glielo può anche dire, ma l'eletto ha tutto il diritto – costituzionale! – di votare come vuole, pure contro Berlusconi. Altrimenti non esisterebbe l'articolo 94 della Costituzione: ossia, il voto di fiducia e la possibilità (art. 94 co. 4) di votare contro le proposte del Governo.

Di più. L'articolo 68 sancisce che "I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere (...) dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni".

Mi è parso giusto scrivere queste noterelle di semplice diritto costituzionale perché nelle prossime settimane e, temo, nei prossimi mesi il tormentone dell'attuale maggioranza sarà quello ampiamente prevedibile: un governo tecnico sarebbe un golpe, sarebbe illegittimo, la legge elettorale prevede il nome sulla scheda... e tutto il repertorio della più becera propaganda.

Il ministro Alfano farebbe bene a rileggersi le discussioni in Assemblea costituente. In particolare, cosa dissero il liberale Aldo Bozzi il 5 settembre 1946 circa il voto di fiducia, il liberale Luigi Einaudi il 27 settembre 1946 a proposito della sovranità popolare e tutta la discussione sviluppatasi il 19 settembre 1946 sul mandato dei parlamentari. E dopo essersi riletto questi passaggi di storia costituzionale del nostro Paese, Alfano potrebbe prendere un pallottoliere e cominciare a contare se ci sono 316 deputati e 162 senatori disposti a sostenere un governo guidato da qualcuno che non sia Silvio Berlusconi. Se ci sono, si metta l'animo in pace perché quell'esecutivo sarà legittimo. Spetterà poi ai cittadini elettori, alle successive politiche, condannare (o, perché no?, approvare) il comportamenti degli eletti che si ripresentano al giudizio delle urne: la sovranità appartiene al popolo!

Maroni ha chiosato: "è senso comune che siamo in un regime presidenziale". Ecco, questa frase è sintomo di un'ignoranza dell'abc giuridico (e il ministro dell'Interno faceva pure l'avvocato) molto grave per un uomo delle istituzioni. Nel diritto costituzionale non esiste un senso comune che possa andar contro le disposizioni scritte della Carta. Dicesi "Costituzione rigida" quel testo che può essere emendato o modificato o abrogato solamente da legge avente pari rango. La gerarchia, nell'ordinamento giuridico italiano, è: 1. legge costituzionale; 2. legge ordinaria; 3. usi e costumi.
Altrimenti, è senso comune che Maroni è un incompetente.

(nonunacosaseria)

sabato 21 agosto 2010

★ Quinto Chiodo - L'Inseguimento

A giudicare da come lo vedeva guidare doveva essere ubriaco o semplicemente imbranato: aveva rallentato e si era fermato davanti a ogni semaforo che desse il minimo segno di voler diventare arancione, era più facile stargli dietro che perderlo di vista. Dopo una ventina di minuti passati su strade che conosceva lo aveva visto imbucare un vicolo di cui a malapena sapeva dell'esistenza. La paura di perderlo stava per prevalere sulla cautela, quando notò il segnale di strada chiusa su un palo piantato all'angolo del marciapiedi. Aspettò qualche secondo, spense le luci e col motore al minimo entrò nel vicolo. A quanto pare il caso stava scegliendo per lui, perché il tipo aveva parcheggiato sotto un lampione e senza notarlo si era infilato in un cancello alla fine di un muro di cemento alto un paio di metri. Senza starci a pensare più di tanto parcheggiò la moto e si sfilò il casco sperando che a quell'ora nessuno potesse notarlo. Con passi rapidi e silenziosi costeggiò il muro pieno di graffiti e si sporse con cautela dal cancello, riuscendo a infilare lo sguardo tra una sbarra e l'altra senza alcuna difficoltà. Era fatta: la luce di una stanza si era accesa al pianterreno e la figura che aveva visto armeggiare con la finestra era proprio quella dello skin. Non restava che decidere una volta per tutte, ma era chiaro che per entrargli in casa sarebbe stato sufficiente scavalcare il muro e calarsi nel giardino. Nemmeno il filo spinato lo impensieriva più di tanto, era visibilmente allentato e avrebbe potuto passarci sia sopra che sotto. Tornò verso la moto passando davanti a due palazzi bassi da cui non venivano segni di vita; si accese una sigaretta e la chiuse, parcheggiandola molto vicina a un cassonetto, in modo che la targa non si vedesse.

giovedì 19 agosto 2010

★ Quarto Chiodo - Possibilità

Non aveva ancora deciso se andare fino in fondo, ma nel dubbio aveva tenuto d'occhio lo skin che l'aveva minacciato per tutto il concerto. Verso la metà della serata si era distratto e lo aveva perso di vista, ma dopo un po' lo aveva notato uscire dal centro della pista e appoggiarsi alla colonna su cui si era sistemato all'inizio. Sembrava ben messo e, soprattutto dal modo in cui lo aveva intimidito, aveva dedotto che fosse avvezzo all'uso delle mani. Ma era altrettanto convinto che non si sarebbe aspettato una reazione, men che mai a distanza di tempo: probabilmente si era già dimenticato anche che faccia avesse.
Stava già pensando a cosa fare nell'attesa che lasciasse il locale, ma la rapidità con cui lo skin era uscito lo aveva quasi preso alla sprovvista. Affrettò il passo, rallentò appena capì che la sua auto era quasi di fronte alle porte del locale, quindi si infilò il casco e salì sulla moto, tenendosi a distanza di sicurezza.

martedì 17 agosto 2010

★ Terzo Chiodo - Incoscienza

Il concerto filò senza strappi. Su qualche pezzo più movimentato si era lanciato a ballare nel mezzo della pista, ma il grosso delle canzoni le aveva ascoltate appoggiato a una colonna cantando a squarciagola. E ovviamente non aveva perso l'occasione di spintonare qualche spettatore che, incautamente, gli si era piazzato davanti senza nemmeno farci caso oscurandogli la visuale. Prima o poi qualcuno lo avrebbe pestato per bene, aveva concluso.
Dopo aver atteso invano che il gruppo rientrasse sul palco per il bis, quando i tecnici iniziarono a smontare gli strumenti e il dj prese possesso delle casse se ne andò a recuperare l'auto parcheggiata a pochi metri dal locale.
Una volta a casa ripose il biglietto del concerto nella scatola di latta, aprì la finestra per far passare un po' d'aria e non diede nemmeno uno sguardo al computer: il tempo di finire lo spinello fumato a metà prima di uscire e si buttò sul letto, lasciando la sua mente libera di viaggiare guidata dai fumi dell'alcool e della droga.

domenica 15 agosto 2010

★ Secondo Chiodo - L'Attesa

Per tutto il tempo trascorso in attesa che il concerto iniziasse aveva messo a fuoco i motivi per cui detestava andare alle feste. Il più importante era indubbiamente dover assistere alle scene pietose in cui i ragazzi, pur di rimediare una scopata, si mettevano a far moine alle ragazze senza mostrare un briciolo di dignità. Vedeva i loro occhi cambiare luce, i loro volti che trasfiguravano a ogni parola nello sforzo di compiacere l'interlocutrice di turno, sentiva frammenti di discorsi in cui trogloditi senza speranza di redenzione rinnegavano persino la passione per lo sport nazionale. Non era una questione di correttezza, non verso l'altro almeno, ma di rispetto per sé stessi: lui non avrebbe mai toccato il fondo in quel modo. Pensò che il bisogno di sesso facesse compiere degli atti vergognosi senza necessariamente doversi trasformare in violenza, che annebbiasse letteralmente il cervello. E in alcuni casi, indubitabilmente, ci voleva davvero poco ad avere ragione di quell'organo pensante.
Quando era giunto al limite della sopportazione e aveva ingannato l'attesa in tutti i modi possibili, il trio salì sul palco. Non si trattava di una band molto nota e questo gli aveva risparmiato l'ascolto di uno di quei gruppi spalla imbarazzanti: in anni e anni di concerti ben poche volte era riuscito ad assistere ad aperture dignitose, e così la noia dell'attesa era stata prolungata da interminabili performance di ragazzini pieni di boria completamente ignari della loro inettitudine.

venerdì 13 agosto 2010

★ Primo Chiodo - La Minaccia

- Ops, scusa.
- Scusa un cazzo!
- Non l'ho fatto apposta...
- Non me ne frega niente, sono venuto a bere, non a farmi infradiciare da te! Stai attento a dove metti i piedi, coglione!
- Ehi, non ti sembra di esagerare?
- Togliti dai piedi prima che ti salti al collo.
Quella frase definitiva si era conclusa con un gesto che aveva fatto indietreggiare il tizio che gli aveva involontariamente versato la birra su una scarpa. Soddisfatto di averlo spaventato girò i tacchi e si avviò verso l'esterno col boccale in una mano e la sigaretta spenta nell'altra. Non prima di essersi asciugato con un fazzoletto, che aveva subito riposto nella tasca dei pantaloni.

mercoledì 11 agosto 2010

Mills in tre parole

La Giustizia è bloccata perché non c'è verso di venire a capo di nessun processo, neanche con Berlusconi o gli altri. Facciamo un po' di chiarezza, no? Il processo Mills ve lo ricordate per esempio? Guardate, per la Giustizia son cose difficilissime da risolvere, io li capisco poi i giudici. Il Mills per esempio, in tre parole: c'è questo Mills che è stato corrotto da un dipendente di Berlusconi, con soldi di Berlusconi, per testimoniare il falso su un processo dove sennò veniva condannato Berlusconi. E non si trova il mandante!

(Roberto Benigni)

lunedì 9 agosto 2010

Cinque miti sulla pena di morte negli USA [05]

La pena di morte non funziona

L'idea che la pena di morte funzioni può essere un mito - ma questo non vuol dire che sia vero il contrario.

La pena capitale non è, come sostengono i suoi oppositori, un costo privo di qualsiasi beneficio. Essi però hanno ragione sul fatto che sia economicamente onerosa. Il mese scorso uno studio dell'Indiana ha mostrato che le sentenze capitali costano dieci volte di più del carcere a vita. E il sistema attuale non garantisce né la deterrenza, né la punizione.

Ma il sistema assolve comunque ad alcuni scopi. In una nazione in cui il carcere è un sistema così abusato che la moneta della reclusione è ampiamente svalutata, la pena di morte consente alle giurie di enfatizzare l'idea della punizione. I politici danno agli elettori esattamente quello che vogliono mediante l'adozione di normative che includono la pena capitale anche quando non saranno mai applicate. I pubblici ministeri usano lo spauracchio della condanna a morte come leva per ottenere patteggiamenti e cooperazione. I mezzi di informazione sono attratti dai casi di pena di morte perché elevano un caso di routine a un dramma pieno di suspense in cui la vita e la morte sono in gioco.

Noi consumiamo avidamente queste storie drammatiche e godiamo della possibilità di partecipare, ancora una volta, a questa controversia tanto antica quanto consueta. Ma è tempo di modificare i termini di questo dibattito fin troppo familiare. Andare oltre i miti e osservare come la pena di morte operi effettivamente è solo il punto di partenza.

(David Garland, "Five myths about the death penalty")

sabato 7 agosto 2010

Cinque miti sulla pena di morte negli USA [04]

La pena di morte funziona

I fautori del sistema attualmente in vigore insistono sul fatto che la pena di morte scoraggi la criminalità e garantisca che gli assassini ricevano la sanzione più adeguatamente retributiva.

Può verificarsi il caso in cui alcuni sistemi che contemplano la pena di morte si mostrino efficaci dal punto di vista della deterrenza: Singapore prevede la pena di morte obbligatoriamente per traffico di droga e impicca i trasgressori spesso e rapidamente; in Cina, migliaia di criminali sono messi a morte ogni anno, molti per corruzione e reati economici. Ma nessuna nazione pubblica le statistiche sul legame tra i crimini e le sanzioni, per cui non abbiamo modo di avere una risposta certa. Però è difficile credere che la pena di morte, così come è gestita attualmente negli Stati Uniti, possa essere un mezzo efficace per scoraggiare l'omicidio - l'unico crimine per cui è comminata.

Lo scorso anno ci sono stati più di 14.000 omicidi negli USA, ma solo 106 condanne a morte. Le probabilità, per un criminale, di essere catturato, processato e condannato a morte è irrisoria. Dei condannati, il 66% per cento vede la condanna a morte ribaltata in appello o durante la revisione della sentenza (secondo i dati del Death Penalty Information Center, negli ultimi trent'anni è stato esonerato un numero minore di detenuti - 139 - circa una dozzina dei quali grazie alla prova del DNA). I pochi trasgressori che vengono messi a morte attendono l'esecuzione mediamente per più di dodici anni, altri fino a trenta. Nulla di tutto questo è sinonimo di rapida o sicura dissuasione, né di efficace punizione retributiva. Il ritardo prolungato differisce e attenua qualsiasi sentimento di soddisfazione o "conclusione" che l'esecuzione potrebbe comportare.

(David Garland,
"Five myths about the death penalty")

giovedì 5 agosto 2010

Strage fascista

Il 2 agosto 1980 L'Unità in edizione straordinaria intitolò «Strage fascista», quando si parlava ancora dell'esplosione di una caldaia. Il comune di Bologna, che ricostruì i luoghi esattamente come erano un attimo prima, in tempi di record, mise una lapide con tutti i nomi e l'età dei morti e la intitolò alle vittime del «terrorismo fascista». Avevano ragione sia il giornale che il comune. [...]

Appena pochi mesi dopo l'attentato, per ordine di un certo Licio Gelli di cui allora nessuno conosceva l'esistenza, ma la cui P2 collezionava una bella fetta dei vertici delle istituzioni italiane, alti ufficiali del servizio segreto militare (allora si chiamava Sismi) collocarono una valigia piena di esplosivo, sul treno Taranto Milano. I carabinieri, insospettiti, la trovarono. Toh, era lo stesso esplosivo usato per la strage di Bologna e nella valigia c'erano due biglietti aerei internazionali intestati a due neonazisti, un francese e un tedesco. Ma che bravi. Sapevano qual era l'esplosivo. Sapevano che le indagini avevano già individuato gli attentatori materiali e l'ambiente (il loro) che li aveva guidati fino a mettere una valigetta nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, con un timer di circa venti minuti di tempo, il tempo necessario per scappare. Ma adesso quella scoperta li avrebbe scagionati. Pensavano. Ad organizzare tutta la messa in scena non furono due infiltrati, ma un generale e un colonnello. Vennero scoperti.

Questa era l'Italia di trenta anni fa. Due anni prima Aldo Moro (il più importante uomo politico italiano, che aveva portato il partito comunista nel governo e si apprestava a diventare presidente della Repubblica) era stato rapito dalle Brigate Rosse, tenuto 55 giorni nel centro di Roma e infine ucciso. Pochi mesi prima il più importante uomo politico italiano dopo Moro, Giulio Andreotti, era volato in gran segreto a Palermo per parlare a quattr'occhi con i capi della mafia siciliana e ne era uscito svillaneggiato. Un anno prima, il più importante banchiere italiano, Michele Sindona, che custodiva i denari della mafia, aveva inscenato un finto rapimento per far credere che i comunisti lo volevano morto. Trentacinque giorni prima, il 27 giugno, il volo Itavia Bologna Palermo era stato abbattuto in volo (81 morti) e tutto il governo si era dato da fare per dire che si era trattato di un incidente. Quattro giorni dopo, il 6 agosto, a Palermo era stato ucciso dalla mafia il procuratore capo di Palermo, Gaetano Costa. Si era fermato ad una bancarella di libri usati, ma lo seguivano due killer in motocicletta. Trentotto giorni dopo, il dieci settembre l'amministatore delegato della Fiat, Cesare Romiti annunciò che voleva licenziare 15.000 operai della Fiat, accusati di essere indisciplinati, praticamente dei terroristi, e di lavorare troppo poco. Poi a novembre arrivarono i tremila morti del terremoto in Irpinia. E voi direte: sì, ma quello fu un fatto naturale. Vero, ma è anche vero che fu l'occasione che permise alla camorra napoletana di acquistare una bella fetta di potere economico nel meridione.

Che anno fu! Che si sono persi, per sapere di che pasta è fatta l'Italia, quelli che nel 1980 non erano nati o non avevano l'età per ricordare! Io mi ricordo che il capo del governo era allora Francesco Cossiga (poi diventato addirittura presidente della Repubblica), che nel corso degli anni si fece conoscere per stravaganti affermazioni. Che l'ubicazione della prigione di Moro era a conoscenza dei vertici del Pci e della Cgil, (lui all'epoca era il grottesco ministro degli Interni che avrebbe dovuto salvare il prigioniero); che i pubblici ministeri antimafia erano dei cretini pericolosi, che la massoneria era una meritevole associazione, che lui da giovane aveva preso le armi per lottare contro il comunismo, e che la strage di Bologna era stato un banale incidente di percorso nel trasporto d'armi del terrorismo palestinese.

Nel 1980 scoprimmo che, qui da noi, si poteva mettere una bomba in una stazione ferroviaria nel giorno in cui tutti prendono il treno per andare in vacanza. E non sapevamo che i nostri servizi segreti fecero di tutto per salvare i colpevoli dell'attentato. E ancora adesso lo fanno.

Nel 1992-1993 (quindi appena dodici anni dopo), visto che c'era stato il precedente della stazione, si pensò che in Italia si potesse andare oltre. Nel giro di soli sette mesi vennero fatte saltare un'autostrada, un quartiere popolare, due chiese storiche, una galleria d'arte a Milano, la più famosa collezione di dipinti a Firenze. Fu la mafia, no? Fu quel contadino analfabeta detto 'u curtu, no? Non proprio. Vi propongo qui un'istantanea di quei tempi: notte del 27-28 luglio 1993. Riunione d'emergenza del governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi. Oltre alle bombe, il paese è paralizzato da giorni da uno sciopero generale degli autostrasportatori, le merci scarseggiano nei supermercati. I ministri scoprono che da Palazzo Chigi non riescono a comunicare telefonicamente con l'esterno: tutte le linee sono bloccate… Poco prima è stata data notizia di un'automobile piena di esplosivo parcheggiata in piazza Colonna, a cento metri da palazzo Chigi. La macchina è stata resa innocua da un robot antiterrorismo. Ciampi reagisce con coraggio riconoscendo le vecchie e le nuove mani che guidano l'attacco. Decide allora di partecipare alla commemorazione della strage di Bologna del 2 agosto. Dove, di fronte "a un attacco complessivo a tutti i poteri dello Stato", dirà: «Nessun compromesso è possibile, né con il passato, né con chi cercasse di condizionare l'avvenire. Ce lo impedirebbero i nostri caduti: quelli di oggi, quelli di Bologna del 2 agosto 1980».

(Enrico Deaglio, l'Unità)

martedì 3 agosto 2010

★ Sofia e Bondi

- Papà, cosa significa "Film vietati ai minori di dieci anni"?
- Significa che i bambini che hanno meno di dieci anni non possono vederli.
- No, non è giusto, io ho solo otto anni, ma a me piace vedere i film!
- Sofia, non tutti i film, solo alcuni...
- Aaah!

domenica 1 agosto 2010

Cinque miti sulla pena di morte negli USA [03]

Gli USA mantengono la pena di morte perché sostenuti dall'opinione pubblica

Quando consultata da sondaggisti, la gran parte degli intervistati dice di sostenere la pena di morte. Quello che risulta meno chiaro è se le persone siano adeguatamente informate sulla questione, abbiano riflettuto a fondo sulla domanda o abbiano preso in considerazione delle alternative come il carcere a vita.

Ma anche le maggioranze di altri paesi occidentali sostengono la pena di morte, benché i loro leader politici l'abbiano abrogata comunque. Come gli Stati Uniti, queste nazioni abolitrici sono democrazie liberali, ma in esse l'equilibrio tra "liberalismo" e "democrazia" è differente da quello che esiste dall'altra parte dell'Atlantico. I leader europei hanno imposto riforme contro il parere della maggioranza perché ritenevano che fosse la cosa giusta da fare, perché le Costituzioni delle rispettive nazioni hanno dato loro il potere di farlo e perché l'azione bipartisan e la forza dei partiti politici hanno fornito copertura contro la disapprovazione degli elettori.

La democrazia negli Stati Uniti però funziona in maniera diversa. Ogni Stato può scegliere se adottare la pena di morte. La decisione non spetta al governo centrale, come in altri paesi. E anche la giustizia penale negli USA è organizzata diversamente. In molti casi i pubblici ministeri e i giudici sono stati eletti - una politicizzazione del processo che è sconosciuta altrove. Negli USA la Corte Suprema è l'unica istituzione che ha il potere di abolire la pena capitale in tutto il paese. E ci è quasi riuscita, nel 1972, nel caso Furman vs Georgia. Ma il movimento a sostegno della legge e della sicurezza di quel periodo ha reso la decisione della Corte profondamente impopolare. Gli Stati hanno emesso rapidamente nuove normative e il giudice ha fatto velocemente marcia indietro. Da allora, la Corte ha rimarcato il fatto che la pena di morte debba rimanere appannaggio della legislazione statale.

(David Garland, "Five myths about the death penalty")