Il dibattito fra il senatore Ceccanti e il direttore Padellaro in merito all'emendamento, poi ritirato, che il Pd aveva presentato al lodo Alfano, solleva un problema più generale sull'intransigenza in politica.
Dalle argomentazioni del senatore Ceccanti emerge che, mentre la volontà e gli sforzi a limitare i danni che produrrebbero cattive leggi sarebbero segno di lodevole responsabilità politica, l'intransigenza che porta al rifiuto di emendare cattive leggi perché non accetta il dialogo con questo governo sarebbe una semplice testimonianza e, come tale, politicamente inefficace.
La verità è che, nella situazione in cui ci troviamo, la testimonianza intransigente è invece più razionale e responsabile della volontà di accordo.
Il sacro dovere di rispondere no quando si ha di fronte un potere enorme corrotto e corruttore che ha fatto e fa della devastazione dei principi della vita repubblicana la sua ragion d'essere e che chiunque conosca anche solo superficialmente l'abc del liberalismo giudicherebbe ripugnante e combatterebbe con tutte le sue forze, la testimonianza coerente dell'intransigenza incoraggia, stimola e rafforza fra i cittadini la volontà di lotta e di riscatto, prima condizione di una possibile vittoria.
L'intransigenza dice a coloro che sono convinti della necessità di opporsi che non sono soli, conquista il rispetto dei dubbiosi e, soprattutto, invita a tornare all'impegno i molti che si sono allontanati perché convinti della futilità dei loro sforzi.
Tutti questi effetti dell'intransigenza sono assai rilevanti dal punto di vista politico. Non solo consolidano il consenso (che è un risultato da non sottovalutare mai!) ma lo estendono. Cittadini convinti della bontà delle loro idee si impegnano a convincerne altri e in tal modo le forze dell'’opposizione crescono mentre si assottigliano quelle che sostengono il potere del signore.
Ragioniamo in termini di pura efficacia politica: è più utile, sottolineo utile, rendere, in maniera quasi impercettibile, migliore una pessima legge, o presentarsi con l'autorevolezza di chi può dire: io con quei signori non ho nulla a che fare? Quando il realismo non convince, i difensori del realismo politico, che è il criterio che mi guida in questo ragionamento, hanno sempre invocato, quale supremo giudice dei comportamenti politici, i risultati concreti. Parlino i fatti: possono, i sostenitori della politica del male minore, citare qualche esempio convincente che la loro iniziativa è stata efficace a diminuire il potere di Silvio Berlusconi e della sua corte?
L'errore di cattivo realismo che i fautori del male minore continuano a commettere è di non capire che una cosa è essere all'opposizione rispetto a governi come quelli, per citare ovvi esempi, guidati dalla Democrazia cristiana, in Italia, o da Margaret Thatcher in Inghilterra o da Helmut Kohl in Germania, un'altra è esserlo rispetto ai governi guidati da un uomo che ha elevato alla carica di ministro Cesare Previti e ha fatto senatore della Repubblica Marcello Dell'Utri.
Suggerisco ai realisti nostrani la lettura dell'opera del vero maestro di realismo politico, Francesco Guicciardini, che ammoniva a non seguire in politica regole generali e ad adattare la propria condotta ai tempi e ai luoghi con "discrezione". Orbene, l'Italia dei nostri tempi è l'esempio perfetto di una situazione in cui l'intransigenza è razionale e la ricerca del male minore e dell'accordo è irrazionale. Di politici cauti e "ragionevoli" ce ne sono fin troppi, quel che manca è un grande politico che sappia ispirare e far capire, con la sua intransigenza, che vuole costruire davvero un'alternativa al dominio del signore e della sua corte.
(Maurizio Viroli)
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