Ricordi, caro Ostellino? Eravamo liberali in anni non sospetti, nel mitico Sessantotto, quando i liberali (anche quelli illuminati) venivano presi a pomodori in faccia, se non peggio. Ci siamo formati entrambi al Centro Einaudi di Torino, sui testi di Isaiah Berlin, di Raymond Aron, di Karl Popper, di Ralf Dahrendorf. E sai che ti dico? Dopo tanti anni e tanti voltafaccia non mi sono mai pentito, non rinnego nulla. Come te, resto convinto che la democrazia liberale, per dirla con Churchill, sia il peggiore dei sistemi politici a eccezione di tutti gli altri, e che non abbia alternative al di fuori di qualche forma, più o meno larvata, di tirannide. Niente e nessuno potrebbe convincermi del contrario.
Ma devo confessarti una cosa: se mi viene ogni tanto qualche tentazione di cambiare idea, buttandomi tra le braccia dei pochi bolscevichi superstiti, è proprio leggendo i tuoi articoli.
Ieri per esempio, nella tua rubrica sul Corriere, spiegavi ai lettori cocciutamente statalisti che prendersela con i "ricchi evasori" è sintomo di pregiudizio ideologico e di invidia sociale. "Fra le libertà del liberalismo – spiegavi – c'è anche quella di arricchirsi [...]. Una volta che lo Stato abbia provveduto a che sia offerta a tutti l'uguaglianza delle opportunità di farsi valere, saranno capacità e meriti a decretare il successo di ciascuno".
Scusa Piero, ma a questo punto mi domando se tu ed io abbiamo letto gli stessi libri. Mi sembrava di si, evidentemente sbagliavo. I grandi teorici del liberalismo, se non ricordo male, ci hanno insegnato che la libertà economica è un presupposto necessario della democrazia politica, ma non sufficiente. Se è vero che dove manca la libertà di intraprendere nessuno è libero, non è sempre vero il contrario: basti pensare alle tigri asiatiche o alla Russia di Putin, regimi autocratici dove gli imprenditori sono liberi di fare quattrini e di sfruttare gli operai, ma i cittadini non possono protestare e la stampa è imbavagliata. Anche la Cina popolare ha riconosciuto la proprietà privata e il diritto di arricchirsi, ma non direi che si possa definire uno Stato liberaldemocratico.
E l'Italia? Secondo te, come si fa a discettare astrattamente di uguaglianza delle opportunità, di libero mercato e di concorrenza in un paese dominato dalle oligarchie, dalle caste e dalle corporazioni protette, dove il presidente del Consiglio è un monopolista prosperato all'ombra del potere politico e grazie alle concessioni governative, e dove una cupola affaristica si spartisce gli appalti delle opere pubbliche senza regole né trasparenza? Un paese che ha il primato europeo dell'evasione fiscale, più di Romania e Bulgaria, e dove i nullatenenti viaggiano in Cayenne? Un paese che in larghe porzioni del suo territorio è controllato dalla criminalità organizzata, in cui per gestire non diciamo un'industria, ma un negozietto, devi pagare il pizzo ai mafiosi? Non è la Svizzera, caro Piero, o l'America delle leggi antitrust e della galera per Madoff. A Dio piacendo, non è neppure la Bielorussia o qualche altro residuo baluardo del socialismo reale.
"In Italia – scrivi – il reazionario Bersani parla ancora di 'politiche di redistribuzione' [...]. Così l'ideale dell'invidioso sociale non è il miglioramento delle condizioni di vita per tutti, ma il peggioramento di quelle di chi guadagna di più". Il Leviatano "livellatore verso il basso" (sic). Ma dove sarebbe, caro Piero, questo mostro hobbesiano? Tu vivi, buon per te, gran parte dell'anno in un'amena regione della Francia meridionale, dove l'amministrazione napoleonica ti fa dimenticare le angherie di quello che tu chiami lo Stato canaglia: se facessi un giretto nel nostro Sud, più che 'a livella (come diceva Totò, riferendosi peraltro all'uguaglianza tombale) vedresti osceni dislivelli di reddito che di meritocratico hanno ben poco. A emergere, da queste parti, non sono i Bill Gates, ma gli Anemoni. E il vero Leviatano è la Piovra che allunga i suoi tentacoli fino alla Milano dell'Expo. Siamo d'accordo: nella Carta dei diritti liberali è inclusa la libertà di arricchirsi. Non però quella di rubare.
(Riccardo Chiaberge, "Il Fatto Quotidiano")
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