Come ben sapete, Alëchin sosteneva che gli scacchi sono un'arte, mentre Capablanca li vedeva come pura tecnica; per Lasker, invece, gli scacchi significavano lotta. Ebbene, devo dire che nei primi tempi essi rappresentarono per me, più che una lotta, una zuffa tra polli, con tanto di schiamazzi e piume che volavano dappertutto. Curavo poco la mia difesa, sacrificavo i miei pezzi senza un vero criterio, e se pure mi riusciva di domare i piccoli incendi, quando tutto l'edificio andava a fuoco neanche me ne accorgevo. Ero convinto che la fantasia (dote che presumevo di possedere in abbondanza) dovesse avere la meglio sul "misero" calcolo da contabile, che era invece la prerogativa di tanti miei avversari i quali, tra continui e meticolosi bilanci di dare e avere, restavano alla fine con quel pedone in più che assicurava loro la vittoria. Sognavo di giocare alla maniera del grande Morphy, o di fare una partita come l'Immortale o la Sempreverde di Anderssen, dove, in una progressiva serie di sacrifici sempre più vistosi, potessi concludere con uno scacco matto eseguito in punta di fioretto con il solo pezzo rimastomi, foss'anche un pedone. Il talento, però, non sempre è all'altezza della passione. Così, mi accanivo a sognare qualcosa che non mi sarebbe mai appartenuto; in realtà ero ben lontano dalla concezione stessa del gioco. Per anni, tuttavia, questa passione crebbe in me fino a raggiungere ben presto proporzioni abnormi.
(Paolo Maurensig, "La variante di Lüneburg")
La lotta (clericale) contro i tumori
1 giorno fa
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